martedì 30 gennaio 2018

C'est la vie

E nella nebbia per la via smarrita
tra un insolito mare di grigiore
ritrovarsi con l’ansia tra le dita
congelate all’abbraccio d’un tepore


semplice, riscoprire della vita
quella fragranza lieve di cui il cuore
talvolta nutre l’anima stupita
come dopo il risveglio dal torpore,


e ritrovarsi, ritrovare a un tratto
quello che non sei più dentro uno specchio
che attonito ti guarda stupefatto


anch’esso, abbandonare l’uomo vecchio
mangiando una brioche soddisfatto
all’interno d’un bar di Casalecchio.


Casalecchio di Reno (Bologna), 30 gennaio 2018

In una mattinata così strana, come quella di oggi, avvolta dal grigiore lattiginoso della nebbia, siamo finiti in un bar di Casalecchio che, programmaticamente, si chiama "C'est la vie". Piace tanto a Gianna, la nostra cara amica di famiglia, e la mamma e io ci siamo accodati di buon grado. certo, ormai non si può più scantonare senza che gli altri non ci dicano che disertiamo il locale solito, ma va bene: si può fare anche così. Non c'è problema. Diciamo che, se c'era qualche cosa che non andava, beh... quello era il tempo: io il freddo proprio non lo sopporto. E poi l'umidità, che te la senti addosso, anche se sei vestito all'impossibile, l'umidità dicevo è proprio inqualificabile. Meno male che la brioche alla crema e il caffè hanno tirato su parecchio il morale, come una sorta di madalaine proustiana, facendomi riscoprire angoli della memoria da tempo poco o nulla frequentati. Oh, sono piccole gioie, quelle che si possono condividere al tavolino di un bar con gli amici e gli affetti una giornata uggiosa, ma pur sempre gioie; e poi è impagabile poter fare due chiacchiere in santa pace, lontano da orecchie e occhi indiscreti. Sì, è proprio come il bar... questa è la vita...

Copyright foto e testi (C) Federico Cinti 2018

lunedì 29 gennaio 2018

Il mio miracolo




Sfogliava il mandorlo ali di farfalle
nel sogno in cui ti vidi ritornare
bella come non mai, meravigliosa,

ed errò l’armonia per questa valle
che assieme a me ti stava a contemplare,
amica mia, dolce sorella, sposa,

con lo sguardo stupito di un bambino
cui di mano è sfuggito il palloncino.

Casalecchio di Reno (Bologna), 3 giugno 2017


Lo ammetto, sì, lo ammetto che è del mio Pascoli il magnifico verso "sfogliava il mandorlo ali di farfalle" ("Il miracolo", 6), oltre ovviamente al titolo, che ho personalizzato con quel "mio", ma dovevo descrivere un sogno sospeso nello spazio e nel tempo, un'apparizione sciolta da limiti e confini nella fantasia d'un attimo incantato. Era una leggerezza come di nuvola tra colori pastello, dove ogni cosa mi sembrava perfetta, dove anche lei era lì a donare a questa valle di lacrime l'armonia della perfezione primaverile, quella cantata da Leopardi nel "Passero solitario" (v. 4): "ed erra l'armonia per questa valle". E la contemplavo in quell'attimo eterno di stupore simile al bimbo che segue l'azzurro in cui si perde il palloncino, un po' come scrive Montale in "Felicità raggiunta, si cammina" (vv. 9-10): "ma nulla paga il pianto del bambino/ a cui fugge il pallone tra le case". E quel sogno finì in breve, più breve certamente d'un battere di ciglia.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Dei fiori di mandorlo, Mick Stephenson, Wikipedia, Almond blossom (Prunus dulcis) with young leaf shoots, Garraf, Barcelona, Spain 2007

domenica 28 gennaio 2018

Nella IV domenica del tempo ordinario


Con tanta autorità Gesù proclama
che si è avverato il tempo del suo regno
in terra per chi crede, per chi ama
la verità, che si tramuta in segno

visibile e tangibile in chi brama
ascoltarlo, seguirlo con impegno,
e ogni parola, ogni opera richiama
chiunque di noi al compito, al disegno

che Dio vuole da lui per la salvezza
di tutto il mondo, in preda allo stupore
davanti alla sapienza, alla fermezza

del Verbo eterno che va dritto al cuore
sanandolo con ferma tenerezza,
davanti alla grandezza del Signore.


Casalecchio di Reno (Bologna), 28 gennaio 2018


L'autorità di Gesù, che tanto stupisce chi era nella sinagoga di Cafarnao il sabato di cui narra Marco nell'episodio letto nel Vangelo odierno, non lascia certo indifferenti nemmeno oggi, in un tempo di incredulità dico e di ricerca di certezze costruite sul giudizio dato da noi agli altri. Insomma, mi chiedo da che cosa nasca lo stupore per le parole e i gesti del Signore, soprattutto quando più che essere disposti a vedere la realtà per come veramente è ci sforziamo di costruirne un'altra a nostra immagine e somiglianza. Gesù ci mette a nudo, valorizza i nostri pregi, ma demolisce quello che in noi non va. In fondo l'indemoniato ha qualche cosa che non va: nel racconto evangelico dice la verità di Gesù, ma lo combatte, lo apostrofa, vuole mandarlo via da sé. Insomma, la via per migliorarci è tortuosa, impervia, a volte molto ardua, ma il Signore è venuto per risanarci attraverso la parola e l'opera. Se siamo disposti ad ascoltare e a operare, forse il nostro cammino è già cominciato.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Resti della sinagoga di Cafarnao, Franco56,Wikipedia

A San Tommaso d'Aquino

Chi, come me, è chiamato indegnamente
a insegnare quel poco che ha imparato
di buono e giusto in modo diligente
dai maestri di vita che ha incontrato,


chi è ancora in formazione, chi è studente
durante il breve o lungo apprendistato
della sua giovinezza, quando sente
forte il bisogno d’essere aiutato,

Tommaso, trovi in te la luce vera
capace di riempire il proprio cuore
della sapienza semplice, sincera,

riscoprendo in te, Angelico Dottore,
la virtù santa di chi crede e spera
nell’amore di Cristo, suo Signore.

Casalecchio di Reno (Bologna), 28 gennaio 2018

Ricordo sempre una volta in cui ero nella basilica di san Domenico a Bologna, quando a un certo punto mi trovai davanti a un affresco di san Tommaso d'Aquino, nella cappella dedicata a San Michele (nella parete destra del transetto dell'altare marmoreo): rimasi molto colpito da quel domenicano un po' grosso con un libro in mano. Già di per sé la basilica in questione è particolare, romanica all'esterno e barocca all'interno, ma quel santo lo sentii particolarmente vicino, forse perché ero ancora studente, forse perché ero ancora alla ricerca di un senso negli studi e nella vita. A quella chiesa ero (e sono) molto affezionato: me ne appassionai grazie alla mia maestra elementare, che spesso ci portava là; poi, ci tornai tante volte con mio padre, la domenica mattina, nelle nostre passeggiate tra il Museo archeologico e appunto san Domenico. Ma Tommaso d'Aquino lo apprezzai dopo, quando ero un po' più grande, quando andavo al Minghetti, con tutte le fatiche dello studio giornaliero. Lo conobbi poi anche attraverso la sua opera monumentale, la sua "Summa Theologiae". E oggi, che mi trovo mio malgrado a insegnare, mi affido a lui per svolgere questo compito così difficile eppure così affascinante e lo cito, soprattutto quando leggo Dante e gli autori medievali. Insomma, è stato un incontro folgorante di cui sono ancora molto grato.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Guercino, San Tommaso scrive assistito dagli angeli, 1662, Basilica di San Domenico, Bologna

sabato 27 gennaio 2018

Omaggio a Mozart

La musica oggi giubila, fa festa
riprende vita nella sua purezza
originaria, chiara, manifesta
come un vento nell’anima, una brezza


rigenerante, con fervore attesta
la sua assoluta, limpida bellezza
in una realtà grigia, cupa, mesta,
bisognosa soltanto di certezza,


perché oggi Mozart fu donato al mondo
dalla mano del massimo Fattore
che volle in lui mostrare il più profondo


senso del proprio genio creatore
nell’armonia perfetta, il più fecondo
mistero di una luce superiore.


Casalecchio di Reno (Bologna), 27 gennaio 2018




Nel giorno in cui è nato a Salisburgo Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) credo sul serio che la musica debba fare festa, abbia di che rallegrarsi, possa trovare un motivo per gioire senza fine. Resto sempre stupito da questo compositore così geniale, ma anche così incredibilmente immediato. Non so, quando col coro studiamo qualche pezzo mozartiano, avverto sempre l'impressione che ogni nota sia la tessera di un gioco raffinatissimo che la mente del compositore ha concepito in un solo atto creativo, quasi ne conoscesse a priori l'intima essenza. E ancora più sorprendente è che studiare i suoi brani non è difficile, ma intimamente appagante. Con altri autori si avverte la fatica, mentre con lui la bellezza. E così ascoltarlo non stanca mai, quasi fosse una sorgente d'acqua viva che zampilla dolce e chiara. Forse per questo Mozart è nome a tutti noto, che non spiace mai, come uno spirito eternamente giovane, libero, fresco. Davvero occorre essere grati al "massimo Fattore", come avrebbe detto Manzoni di Napoleone, che lo ha donato al mondo per dare gloria al suo nome.

Copyright (C) Federico Cinti 20178

Immagine: Google immagini




Auschwitz


Un buco nero, un baratro, l’abisso
in cui tutto precipita, si annulla
nel silenzio, nel buio, nella morte,
una domanda che non ha risposta,
ma pretende dal mondo la memoria.


Casalecchio di Reno (Bologna), 27 gennaio 2018
Ad Auschwitz sono stato due volte con i miei studenti e non trovo altre parole che queste di Primo Levi, “Se questo è un uomo”, per descriverne il senso:
«E infatti: spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente.
- Warum?- gli ho chiesto nel mio povero tedesco.
- Hier ist kein Warum, - (qui non c’è perché), mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone».
 Ad Auschwitz sono stato a fine inverno: piovigginava senza fine, era freddo, il cielo pesava come un coperchio di cemento ed era un’aria di morte tutt’intorno. Ci sono tornato, qualche anno dopo, a primavera: il clima era tiepido, il cielo limpido, tutto era placido, ma quell’aria di morte restava intrisa dappertutto, sui prati, sul vagone, sulle baracche che abbiamo visitato. In ogni angolo mi risuonava quel “qui non c’è perché”.
Mi sentivo sull’orlo dell’abisso e così i miei studenti, rimasti attoniti davanti alla macchina dell’annientamento di altri uomini e donne come loro, increduli che fosse potuto succedere. Ecco, proprio l’incredulità e lo sgomento mi rendono certo che bisogna custodire caparbiamente la memoria di ciò che è stato a causa di un’ideologia di morte, perché tutto non sia avvenuto invano, perché quell’orrore non si ripeta mai più.


Copyright (C) Federico Cinti 2018

Immagine: Google immagini

venerdì 26 gennaio 2018

Omaggio a Walt Whitman

Capitano, capitano,
sarò forse il caso strano
di un malato poco sano
che sopra ali di gabbiano


oggi insegue il sogno vano
di ogni singolo italiano,
se si scende da Bolzano,
fino al fondo siciliano


dove erutta anche il vulcano,
ma non quello leopardiano,
con un rombo disumano:


molto in fretta o troppo piano,
con il piede o con la mano,
ti saluto da lontano! 


Casalecchio di Reno (Bologna), 25 gennaio 2017



Ero valetudinario, mio malgrado naturalmente, e mi risuonavano in mente i versi della poesia di Walt Whitman: “Capitano, mio capitano!”. Oh, non so, forse era solo la suggestione del famosissimo film di Robin Williams, “L’attimo fuggente”, in cui un professore più strano di me recitava con la passione dell’educatore. Già, il mio caro Orazio ci sta sempre: “carpe diem, quam minimum credula postero” (carm. I, 11, 8). Insomma, vivere appieno la pregnanza dell’attimo direi che sia un valore che va al di là di ogni norma stabilita, anche perché non significa altro che vivere al meglio, gustandolo ovviamente, tutto quel che si fa e che si è. Sì, ero valetudinario, quando ho scritto questi versi, seguendo l’onda così travolgente della rima, ma reinterpretando un po’ la spinta a seguire il “capitano, mio capitano”, visto che era un po’ all’italiana, se poi lo si saluta “di lontano” e in più “con il piede o con la mano”. Sì, dai, è la solita questione del vecchio “armiamoci e partite”. Ma anche se ero valetudinario, e non ho potuto tralasciare il caro Leopardi che parla “del formidabil monte / sterminator Vesevo” (“La Ginestra”, 2-3), sulla cui arida sponda cresce “il fiore del deserto”. Comunque va bene, se a distanza di tempo la convalescenza si è risolta e io continuo a salutare con un certo distacco il “capitano, mio capitano”.
Copyright (C) Federico Cinti 2018






giovedì 25 gennaio 2018

Lungo l'orlo del limite


E sul freddo silenzio dell’abisso
da cui nulla, si dice, fa ritorno,
aggrappandoci stretti al Crocifisso
nello sconforto torbido di un giorno

di metà inverno, inutile, prolisso,
vano nel suo ripetere lo scorno
della mortalità, col cuore scisso
dal chiacchiericcio querulo dintorno

che sempre ci distrae da ciò che è vero
e reale, anche noi abbiamo cantato
con questa voce flebile il Mistero

svelatosi ai nostri occhi, consegnato
come un dono ineffabile, sincero,
a chi tutto al Signore s’è affidato.

Casalecchio di Reno (Bologna), 25 gennaio 2018



Stamattina, in Certosa, ci siamo ritrovati a cantare per l'estremo saluto a Maria Giulia, zia di alcune nostre coriste che ci tenevano tanto andassimo colà. Era molto freddo, ma non so se fosse il clima invernale o l’atmosfera del giorno ad avvolgere ogni piccolo spazio d’un gelido abbraccio, dentro e fuori di noi. Essere sulla linea che separa, ma che in fondo congiunge, l’aldilà con l’aldiquà mi ha fatto una strana impressione, mi ha quasi sospeso sul confine, proprio come il presbiterio della chiesa di San Girolamo, cui s’accede dopo avere oltrepassato una cancellata essenziale, ma bella. Il nostro canto, sobrio e discreto, bene s’accordava alla meditazione del momento, che non è la consapevolezza della fine ineluttabile, dell’ultima linea rerum, come scriveva Orazio, ma di un necessario atto di passaggio, di transito a una dimensione più vera e grande. Non c’è altro rito in cui sento maggiormente il bisogno di aggrapparmi al Crocifisso, all’ancora della nostra salvezza, al simbolo che ci congiunge al Mistero. Più volte ho dovuto discutere con chi non accetta questa realtà, perché si ferma al di qua della soglia, del limite, della cancellata; ma nulla può eliminare l’assoluto della realtà e della rivelazione per cui Gesù è via, verità e vita. Vita, vera vita, prima e dopo la morte, che è quella linea che oltrepassiamo per essere, non per non essere più nella dissoluzione della polvere. Ecco, allora, che la Certosa è sul serio un camposanto, un cimitero, che vale ‘dormitorio’, in cui trovare l’eterno riposo nell’immortalità di Dio.
Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Cimitero monumentale della Certosa, Matti.happy, Wikipedia

mercoledì 24 gennaio 2018

L infiné

Sänper chèra la m fó sta mî culéṅna
sulitèria e sta zè che da gran pèrt
la tôl la véssta dl ûltum uriżånt.
Mo a sêder e a guardèr interminâbil
spâzi là d là da qualla e sovrumàn
silänzi e pò una pèṡ dimónndi fånnda
am fag int al pinsîr, e pôc ai manca
ch’al côr as ciapa pòra. E apanna al vänt
a sént sfrusièr in mèż a ste brucâm,
cal silänzi infiné mé a sta våuṡ qué
a sån drî a cunfruntèr: e a päns intànt
al etêrn e ai dé andè e al preṡänt e vîv
e l armåur ch’l é al sô. Acsé in sta fâta
immensitè al s anîga al mî pinsîr:
e in ste mèr al m é dåulz andèr a fånnd.


Giacomo Leopardi, traduzione di Federico Cinti


L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Giacomo Leopardi


Ma come suonerà "L'infinito" di Leopardi in bolognese? Era la domanda, questa, che mi ponevo da tempo, anche prima che con Federico Galloni e Francesco Pieri ci mettessimo a lavorare al "Parnaso bulgnaiṡ" (Bologna, Pendragon, 2015), la bella antologia di poesie tradotte in puro dialetto petroniano. Sì, lo so, so già che ho parlato diverse volte e in diverse sedi di questo magnifico libretto; quello che, però, non ho detto è che voglio proporre una mia versione del capolavoro del recanatese, visto che nel "Parnaso" c'è quella di Francesco Pieri. Lo ammetto, avrei voluto farlo tutto io, il florilegio di cui sopra dico, e quindi adesso mi riprendo un po' gli spazi che mi sarebbe piaciuto avere. Del resto, che Leopardi sia stato a Bologna per più d'un anno è cosa nota, dal 29 settembre 1825 al 3 novembre 1826. Insomma, questo benedetto "Infinito" avrebbe senza dubbio potuto suonare così, come l'ho tradotto e letto io. 
Con il supporto tecnico-logistico di un mio studente, Carlo, che aveva preso a prestito lo smartphone di una sua compagna di classe, Elena, dato che il mio, non so perché, non ne vuole sapere di fare video decenti, sono riuscito a confezionare un prodotto degno perlomeno di essere ascoltato e, spero, gustato. D'altronde, un bel Leopardi in bolognese è oggi merce molto rara. Ho già proposto Catullo e Dante, adesso è la volta del conte Giacomo Leopardi. Una prossima volta, se non sono troppo stucchevole, vorrei che toccasse a Carducci, al suo bel "Pianto antico", che non è altro poi se non "Zîg antîg". Si può proprio dire che da Bologna è passato, e continua a passare, tutto il mondo.

Copyright testi e video (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Leopardi, Giacomo (1798-1837) - ritr. A Ferrazzi, Recanati, casa Leopardi, Wikipedia

martedì 23 gennaio 2018

Un sogno che s'avvera

Che cos’ha questo sole sulla soglia
del portico per l’aria cristallina
lungo la Porrettana? Ha forse voglia
di vestirsi di nuovo, stamattina

che il giorno oggi più limpido si spoglia
della sua grigia, gelida cortina
di nebbia e dentro l’anima germoglia
un non so che di vita lieve, fina,

tra le pieghe recondite del cuore
scioltosi a questo po’ di primavera
al cui raggio sfavilla di colore

l’ansia del tempo, il cupo che dispera
nel sentire di nuovo quel tepore
simile a un dolce sogno che s’avvera. 

Casalecchio di Reno (Bologna), 23 gennaio 2018


Ho sempre pensato, ma poi anche altri me lo hanno confermato, che il nostro bel portico lungo la Porrettana alla Croce sia stato davvero una "social street" ante litteram. Già, perché a parte naturalmente tutti i negozi, le attività commerciali e quant'altro, è proprio luogo e momento di socializzazione, d'incontro, di chiacchiere (oh, non dico pettegolezzi, anche se ci starebbero pure quelli). Certo, d'inverno si fa un po' più di fatica, per il gelo che tira sempre; ma in primavera è tutt'un'altra cosa. Pure questa mattina, che c'era un bel sole, abbiamo incontrato molte persone che andavano alla spesa, che passeggiavano, che si fermavano in capannello a salutarsi e a raccontarsi la vita di tutti i giorni. addirittura qualcuno, al bar, con la scusa di fumare, si è messo fuori. Mi ci sono messo pure io, ovviamente con le spalle al sole per riscaldarmi un po', perché non è che mi piaccia tanto l'aria frizzantina, anche se ho l'abitudine di vestirmi parecchio, forse anche troppo. Credo che fosse la stessa sensazione provata da Pascoli a Messina quando, componendo la famosa poesia L'aquilone", comincia: "C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d'antico: io vivo altrove e sento / che sono intorno nate le viole" (vv. 1-3). Già, è la ciclicità delle stagioni che, di volta in volta, stratifica nella nostra anima ricordi d'età che, ahimè, non torneranno più.

Copyright testi e immagini (C) Federico Cinti 2018

lunedì 22 gennaio 2018

Voglio nel mio parlare

Voglio nel mio parlare essere franco
con solo una e  una sola posizione,
dimostrandomi sempre o nero o bianco
quando si prende qualche decisione,

per non creare dubbi e offrire il fianco
alla solita iniqua discussione,
di cui mi sento ormai sempre più stanco,
con doppie, triple o quadruple persone.

Nel mio parlare voglio essere chiaro,
perché sappiano tutti ciò che sento,
anche nel caso che sia dolce o amaro,

per poter dire ovunque e ogni momento
quel verbo un po’ difficile e un po’ raro
che altro non è che questo: non mi pento!

Casalecchio di Reno (Bologna), 22 gennaio 2018


Non sarà di certo sfuggita a nessuno l'allusione patentissima all'incipit della canzone dantesca "Così nel mio parlar voglio esser aspro", anche se i toni sono meno forti. In verità, vorrei solo sottolineare che cerco la coerenza, desidero soltanto essere o bianco o nero, per non dover dire, alla fne, come qualche volta pure è capitato, che mi pento. Insomma, le morali doppie, triple o quadruple non mi sono mai andate a genio. Io provo a non deludere né gli altri né me stesso. Poi, come dice Petrarca, "spero trovar pietà, non che perdono".

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Sandro Botticelli, Dante Alighieri, tempera su tela, 1495, Ginevra, collezione privata

domenica 21 gennaio 2018

Ad Agnese Vergine e santa

Giovane santa, Vergine prudente,
testimone del nome del Signore
fino alla morte atroce, indifferente
alla tortura del persecutore

che ti voleva docile e obbediente
nell’estrema follia del proprio cuore,
Agnese, pura, semplice, silente
come agnello immolato per amore

di chi prima di te si era immolato
sulla croce per dare la salvezza
a chi andava smarrito nel peccato,

insegnaci la forza, la fermezza
della fede in chi tu sempre hai sperato
con la tua carità senza incertezza. 

Casalecchio di Reno (Bologna), 21 gennaio 2018


Una giovane martire romana, agnese, nel cui nome già era in nuce la purezza, come suggerisce l'etimologia (in greco 'aghios' significa 'santo'), oggi ci ricorda che ogni momento della nostra vita può essere offerto al Signore. Varie sono le notizie a riguardo di sant'Agnese, come il fatto che il figlio del prefetto di Roma, innamorato di lei, la desiderava, ma rifiutato, l'avrebbe fatta rinchiudere in un postribolo; oppure che fosse stata mandata al rogo e le fiamme non l'avrebbero lambita. Insomma, la devozione popolare a volte arricchisce le doti dei modelli che la Chiesa ci propone alla nostra edificazione. Pare che il suo martirio sia avvenuto tagliandole la gola senza che lei non dicesse una parola, proprio come l'agnello sacrificale offre il suo silenzio a chi l'uccide. Insomma, Agnese ci pone davanti alla responsabilità della testimonianza della fede, della speranza e della carità.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Johann Schraudolph, Sant'Agnese Vergine e martire (1842)

Nella terza domenica del tempo ordinario. La chiamata dei primi Apostoli.

Il regno di Dio è qui, tutto è compiuto!
Credete: è l’ora della conversione
vera del cuore, in cui Gesù è venuto
a rivelare all’uomo la missione

per cui è nato, che egli ha ricevuto
dal Padre, è l’ora della vocazione
di chi ha risposto sì, di chi ha creduto
con fiducia alla sua rivelazione,

mentre ormai il tempo è diventato breve
nell’urgenza del vivere con zelo
quanto si dona, quanto si riceve,

sempre con gli occhi volti verso il cielo,
perché il giogo di Cristo è dolce, lieve,
alla lieta sequela del Vangelo.

Casalecchio di Reno (Bologna), 21 gennaio 2018


Mi ha sempre meravigliato l'espressione di Paolo, secondo cui «il tempo si è fatto breve» (1 Cor 7, 29), per l'urgenza che suggerisce: è come se proponesse un programma di vita. Tutto quel che distrae dalla vera conversione del cuore, che spinge a desiderare solo di essere come Gesù, deve essere messo da parte, e non perché sia necessariamente cattivo, ma perché rischia di rallentare il raggiungimento dell'obiettivo, che altro non è se non vivere sin d'ora il regno di Dio, che si è compiuto proprio in Gesù. Non a caso all'inizio del Vangelo di Marco si legge la chiamata dei primi discepoli, di Andrea e Pietro, di Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, perché da tale chiamata comincia la sequela di Cristo. Seguire Gesù è non perdere tempo, mettersi al servizio di un bene più grande, che è poi il bene comune, nella consapevolezza che il giogo del Signore è leggero da portare (Mt 11, 30), perché non siamo da soli, ma siamo sorretti nella fatica quotidiana da chi ci ha chiamato a essere pienamente uomini e donne. È questo che più di tutto rende il regno di Dio già compiuto adesso, in terra, mentre appunto «il tempo si è fatto breve».

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Marco Nasaiti, Vocazione dei figli di Zebedeo (1510), olio su tavola, Cathopedia, http://it.cathopedia.org/wiki/Vocazione_dei_figli_di_Zebedeo_(Marco_Basaiti)


sabato 20 gennaio 2018

L'arte della fuga

Ascolto nel silenzio l’assoluto
in fuga sulla via dell’infinito
ripetersi e una volta ripetuto
ripartire da dove era partito,

ascolto assorto dentro il buio muto
elevarsi lo spirito rapito
al più lontano vertice, perduto
per un attimo e subito smarrito

di nuovo dove mai, non è mai giunto
o dove la vertigine apre porte
inaccesse tra il punto e il contrappunto

dell’essere, dall’uomo avuto in sorte
all’origine, su, nel cielo assunto,
oltre l’ultima linea della morte.

Casalecchio di Reno (Bologna), 14 novembre 2017


Mi capita, e non di rado, di essere come rapito dal genio di J.S. Bach, in particolare dalla fuga, da quel ripetersi quasi ossessivo di un tema che si rincorre ciclicamente. Non so spiegare, ma è come una sorta di ascesa, di scala che, a poco a poco, mi eleva a una rarefazione difficilmente spiegabile, ma che mi lascia sospeso, fuori di me. Questa stessa sensazione l'ho provata, non molto tempo fa, ripassando una sera mentalmente l'ultimo canto del "Paradiso" dantesco: stranissimo, davvero, mi pareva il dolce naufragio nel mare dell'infinito leopardiano, che altro non era se non "lo gran mar de l'essere" di cui parla sempre dante in Par. I 113. Ecco, allora, posso dire che la fuga si ripete a ondate, "alterne eterne" (G. Pascoli, "Nella nebbia", 14), fino a che non ci si rivela davanti l'immensità del nostro essere, fatto per abbracciare l'universo e il suo Creatore.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: The face of Bach, Elias Gottlob Haussmann, Version of 1748

venerdì 19 gennaio 2018

Trascorso il compleanno

Quindi, espletati i compiti di rito
dei saluti cordiali, dell’appello,
dell’ultimo in ritardo all’infinito
che ha evitato il controllo del bidello,

dopo avere iniziato la lezione
come sono capace, con l’afflato
che mi dà la poesia, con l’emozione
che la letteratura mi ha insegnato,

con un paio di torte i miei studenti
mi hanno comunicato il loro affetto
festeggiando con me questi momenti
del nostro umano vivere imperfetto,

e abbiamo condiviso qualche istante
di quel che siamo, un gesto, una parola,
un po’ di noi, così, seduta stante,
come si può, perché anche questo è scuola. 

Casalecchio di Reno (Bologna), 19 gennaio 2018


Il giorno del mio compleanno avevo festeggiato alla grande al bar e anche con gli amici, ma quello che più di altre cose mi ha stupito e commosso è stato l'affetto degli studenti, il giorno dopo, il 17 gennaio. Già, perché in una classe i miei studenti hanno voluto condividere con me un pezzo di torta che mi avevano portato in regalo, con tanto di candeline da spegnere, come nella più genuina tradizione (meno male che non mi hanno tirato le orecchie, perché non so se io lo avrei sopportato di buon grado). Non ho saputo, né potuto, dire di no, perché credo intimamente che anche questo sia scuola, condivisione di quel che sono. Oh, si è poi preso solo un piccolissimo momento alla didattica... che poi anche questa è didattica, perché la convivialità e la condivisione sono elementi della didattica, anche se fatta all'intervallo come quel giorno. In questo i miei studenti hanno dimostrato di avere interiorizzato la vera lezione che provo a tenere ogni giorno. E lo stupore non è finito, perché nell'altra classe sono stato accolto da un caloroso applauso e uno studente mi ha addirittura dedicato un biglietto in rima... insomma, posso dire di avere ricevuto un bellissimo regalo anche da questi miei compagni di vita, da coloro con cui condivido un pezzo di strada. Ecco, non posso che ringraziarli di cuore per questo. Ma che lo scrivo a fare? Credo che sia ovvio...

Copyright foto e testi (C) Federico Cinti 2018

mercoledì 17 gennaio 2018

A Sant'Antonio Abate

Dopo aver rifiutato ogni più ambita
ricchezza, ogni lusinga, ogni illusione,
percorrendo la via che Gesù addita
a tutti per la propria perfezione,

nel deserto interiore della vita
hai sconfitto ogni umana tentazione,
come sapiente monaco eremita
raccolto senza posa in orazione,

Antonio abate, santo che sostiene
chi nel corpo e nell’anima è piagato
da mali, dubbi, idee di falso bene:

aiuta chi si trova oggi in peccato,
perché sia messo Satana in catene,
se qualcuno con te a Dio si è affidato. 

Casalecchio di Reno (Bologna), 17 gennaio 2018



Sant'Antonio abate (251-356 d.C.) è il santo dell'Egitto che, di solito, viene raffigurato come un monaco molto anziano, e in effetti è proprio vero, se si considera che è morto a 105 anni. Io lo ricordo sempre rafigurato come un vecchio dalla barba bianca, con un bastone e in compagnia d'un maiale: nella mia fantasia, soprattutto in quella di bambino, tale immagine rafforzava la convinzione che davvero, secondo il detto bolognese, egli si fosse innamorato d'un maiale, a dire in fondo che, quando si è innamorati, non si guarda in faccia a nulla. Poi, è ovvio, si cresce e si capisce che in quell'animale sta l'amore anche per bestie ritenute immonde in determinate epoche. Sì, gli animali, tanto che nel suo giorno da un certo momento in poi si è presa l'abitudine di benedirli in nome suo. Così è diventato un santo delle campagne, molto amato, molto venerato. La mia mamma ricorda sempre che al sud, in particolare a Brindisi dove è nata, si aveva l'abitudine di accendere fuochi con fascine ai crocicchi delle strade e di far festa con le maschere, secondo il detto - spero di scriverlo bene - "sant'antueni maschere e sueni", perché oltretutto si cantava vestiti da carnevale. Ecco, il fuoco è un altro dei simboli con cui è rappresentato. Quando ho avuto l'herpes zoster, qualche anno fa, molti lo chiamavano "fuoco di sant'Antonio". Non voglio dilungarmi poi più di tanto, ma ricorderò che è il santo che viene ricordato dal martirologio il giorno dopo il mio compleanno.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: santino di Sant'Antonio Abate


martedì 16 gennaio 2018

Auguri a me medesimo!

In questo giorno un po’ particolare
di metà mese, di metà gennaio,
mi corre sempre l’obbligo di fare
gli auguri a chi di certo non ha il paio

in bravura, in ingegno singolare,
a chi ha l’animo forte come acciaio
se deve, e a volte capita, affrontare
qualche disavventura, qualche guaio,

al più bello di tutti, qui alla Croce,
se non si vuole dire al più bel fico
in un quartiere che si è fatto atroce,

oggi che è il compleanno, oggi che dico,
mentre il tempo è già corso via veloce,
che il migliore di tutti è Federico! 

Casalecchio di Reno (Bologna), 16 gennaio 2018


È ormai da qualche anno che ho preso l’abitudine di scrivermi gli auguri da solo, consapevole che quello che io faccio agli altri, in fondo, gli altri non lo sanno fare (o non lo vogliono fare). Già, perché soprattutto per i miei studenti, di solito, anche se non è una regola, scrivo il bigliettino d’auguri. Mi pare un gesto gentile, una cortesia che si muove alle persone che si stimano. Ne ho collezionati parecchi, ma cerco sempre di personalizzarli, anche perché ognuno di noi è diverso dagli altri. 

In mattinata, come spesso mi capita, anche perché mi piace parecchio, sono andato al bar, in particolare al Bar Giorgio della Croce. Li mi aspettavano festeggiamenti davvero inaspettati: la Vivi e la Gianna mi avevano portato un vassoio di venti croissant a tutti i gusti, crema, cioccolata, marmellata. Sì, mi aspettavo qualcosina, ma non così. La mamma si è pure commossa. Poi, mi hanno regalato una bottiglia di champagne e un profumo. Insomma, una sorpresa da restare a bocca aperta (io almeno sono rimasto così). Ho poi avuto altri regali, come una sciarpa e un tiramisù. Oh, davvero per tutti i gusti! 

Non ero a scuola, perché oggi è il giorno libero, ma gli studenti mi hanno lo stesso omaggiato dei loro auguri. Uno, Luca, mi ha mandato addirittura un video in cui, assieme ai suoi compagni di classe, mi manifestavano il loro affetto e il loro rispetto. Domani bisognerà che io ricambi in qualche modo. 

Non ho poi ancora finito di rispondere ai messaggi, alle telefonate, ai bigliettini… è diventato impegnativo pure compiere gli anni! Eppure, è così bello sentirsi circondati dall’affetto di chi ti vuole bene.

Copyright foto e testi (C) Federico Cinti 2018

lunedì 15 gennaio 2018

Poi ti senti così

Poi ti senti così, semplicemente
diverso, non più tu, come svegliato
da un sogno, un lungo sogno evanescente
nella memoria incredula, cambiato

senza saperlo, un attimo, anzi un niente
rispetto a prima, a quanto è capitato,
uno straniero in mezzo ad altra gente
cui passi in mezzo nell'anonimato,

senza più storia, quasi senza volto,
in un silenzio attonito, contorto
nelle vicende altrui, ora in ascolto

steso sull'acqua galleggiando a morto,
senza peccato, libero, già assolto,
alla ricerca di un felice porto. 

Casalecchio di Reno (Bologna), 19 ottobre 2016


Non so, ma mi rivedo al Margherita, solo e pensoso, immerso nei pensieri di un essere che, in fondo, è un essere già stato. Credo che le foto (e oggi anche i video) ci diano l'illusione di poterci vedere dall'esterno, in quello specchio immoto che è la fantasia. Eppure, nel momento in cui possiamo guardarci dall'esterno, ho come l'impressione che non siamo più noi, ma quasi la foglia che si è staccata dall'albero, come in autunno, quasi un pezzo di noi che se ne è andato. La foto è rigida, come il freddo del non essere. 

Anche il video è così, in movimento, ma un movimento destinato a finire in fretta, troppo in fretta, in un segmento di tempo che non ci rappresenta più. Ecco, forse ci possiamo solo immaginare da fuori, non più da dentro; ci possiamo volgere indietro per dire quello che non siamo più e che ancora non saremo. 

Per questo, a volte, mi sembro semplicemente un altro, passo in mezzo alla folla, un po' come Gesù a Cafarnao dopo essersi rivelato in un giorno di sabato finita la lettura del profeta Isaia, senza che nessuno mi conosca e mi riconosca, nemmeno io. Questo è lasciarsi vivere, fluire addosso il tempo; appena, però, ci si ferma a riflettere, come in uno specchio appunto, ecco non siamo più noi, ecco ci si vede dall'esterno. 

Non so, Pirandello diceva: "chi vive, quando vive, non si vede". E in quest'epoca dell'immagine, in cui tutto è ridotto a icona, pure il nostro divenire, se ancora diveniamo qualche cosa, siamo in grado di fare il percorso opposto e liberarci del fiume di Narciso che ci innamora e ci uccide inghiottendoci? Oppure, tutto è molto più semplice: ci vogliamo vedere come gli altri ci vedono. Niente di più, niente filosofia, niente voli pindarici, solo un po' di desiderio di lasciare di noi qualche vestigio.

Copyright foto e testi (C) Federico Cinti 2018