mercoledì 28 febbraio 2018

Di fine Inverno

Vento, da dove vieni e dove vai
con la tua voce colma di mistero
per questa notte torbida in cui ormai
è tutto così falso, così vero?


Ascolto: è come se volesse entrare
qualcuno che desidera parlare.


Ascolto: in ogni sibilo risento
mille parole flebili di vento.


Casalecchio di Reno (Bologna), 28 febbraio 2018


A volte mi viene da pensare che tutto, ma proprio tutto, rimandi a qualcos'altro, che sia - per dirla in termini retorici - metafora. chissà, forse anche noi, ma non voglio sconfinare troppo in una dimensione metafisica, anche noi siamo metafora senza saperlo di qualcos'altro. Sì, tutto è simbolo, tutto parla di quel che non sappiamo, almeno in apparenza, tutto è voce di una lingua ignota, che solo a tratti riusciamo a percepire e comprendere. Sarà davvero che la natura, il tempio in cui viviamo, è una foresta di simboli, come sostiene il buon Baudelaire. E, se è così, questo vento tagliente, questo freddo glaciale, quest'inverno candido di neve e d'inerzia che cosa significa? Questa mattina, con i miei studenti, leggevo la nona lirica del primo libro delle "Odi" di Orazio: anche lì il Soratte è candido di alta neve, un po' come la vecchiaia del poeta che parla alla giovinezza del ragazzo, esortato a godersi la vita, finché è giovane. E allora questo vento, che sbatte, che ulula, che fischia, a chi parla e che cosa dice?

Copyright  Foto e Testi (C) Federico Cinti 2018



martedì 27 febbraio 2018

Carissimo Chopin

Sarà il caso, chissà, sarà il destino
se poi esiste, sarà la provvidenza
effusa dallo Spirito divino
per grazia su ogni singola esistenza,


sarà che fin da quando ero bambino
l’ho sentita come intima mia essenza,
sarà quel che non so, ma a cui m’inchino
con la più naturale reverenza,


sarà che mi ci trovo, ci sto bene,
e senza alcun problema te lo dico
così come mi va, come mi viene,


vestito un po’ di nuovo, un po’ d’antico,
come mi sento, come mi conviene,
ma anch’io, lo sai, mi chiamo Federico.


Casalecchio di Reno (Bologna), 27 febbraio 2018


Temo che abbia ragione Arthur Schopenhauer a dire che l'arte più sublime sia la musica, anche perché va dritta al cuore, oltre ovviamente che alle orecchie. Per alcuni musicisti poi è ancora più vero. Ricordo una sera in cui volevo correggere compiti e misi, come sottofondo, visto che era sera, i "Notturni" di Fryderyk Chopin. Beh, mal me ne incolse, perché, rapito da quel linguaggio senza limiti e confini, smisi immantinente il mio consueto ufficio e altro non feci se non lasciarmi cullare per tutta la durata dell'esecuzione. Oh, anche adesso dovrei correggere compiti, tanto per cambiare, ma il dialogo con questo eccezionale genio della musica mi fa pensare che sia il caso di rimandare a domani. e poi, nemmeno a farlo apposta, si chiama come me, si chiama Federico... un altro gioco di specchi? Io in lui o lui in me (o entrambi in un'altra dimensione)? Non so perché, ma alle volte mi lascio trascinare dalla potenza dei nomi e dalla suggestione delle parole. Del resto, anche la parola è suono, è sostanza fonica in grado di creare a livello, chiaramente pure etimologico, poetico. E la musica? La musica è l'arte per eccellenza delle Muse, come poi la parola... e si quadra il cerchio.

Copyright (C) Federico Cinti 2018 

Immagine: Google immagini

lunedì 26 febbraio 2018

O luce generata dalla luce



O luce generata dalla luce,
Redentore, Gesù, di tutto il mondo,
degnati con clemenza d’ascoltare
le suppliche e le lodi di chi invoca.

Fiammeggiante nel volto più del sole,
candido nel vestito come neve,
a degni testimoni sopra il monte
ti sei mostrato quale Creatore.

Tu, riunendo i profeti ormai nascosti
ai discepoli nuovi nella fede,
per divino decreto agli uni e agli altri
ti sei manifestato come Dio.

Poi la voce del Padre ti ha chiamato
dal cielo come proprio unico Figlio,
che con cuore fedele confessiamo
essere il re di chi abita nei cieli.

Tu che ti sei degnato di vestirti
per chi era perso della nostra carne,
rendici membra veramente vive
del tuo beato corpo di risorto.

Noi rivolgiamo a te le nostre lodi,
le rivolgiamo a te, il diletto Figlio,
che lo splendore nobile del Padre
e insieme dello Spirito rivela.
Amen.


O NATA LUX DE LUMINE

O nata lux de lúmine,
Iesu, redémptor saeculi,
dignáre clemens súpplicum
laudes precésque súmere.

Prae sole vultu flámmeus,
ut nix amíctu cándidus,
in monte dignis téstibus
apparuísti cónditor.

Vates alúmnis ábditos
novis vetústos cónferens,
utrísque te divínitus
Deum dedísti crédere.

Te vox patérna caelitus
suum vocávit Fílium,
quem nos fidéli péctore
regem fatémur caelitum.

Qui carne quondam cóntegi
dignátus es pro pérditis,
nos membra confer éffici
tui beáti córporis.

Laudes tibi nos pángimus,
diléctus es qui Fílius,
quem Patris atque Spíritus
splendor revélat ínclitus.
Amen.


Casalecchio di Reno (Bologna) 26 Febbraio 2018




Ieri, che si è letto il Vangelo della trasfigurazione secondo il racconto di Marco, mi è tornato in mente uno degli inni di questa solennità che si festeggia il 6 agosto. È un inno del IX secolo, ovviamente in dimetri giambici. La resa naturale sarebbe in settenari sdruccioli (in tal modo sarebbe possibile cantare la traduzione italiana secondo il modulo gregoriano). Certo, si perde molto e, in alcuni passaggi, si è costretti a riscrivere. Insomma, non è compito facile. Ho provato a rendere il tutto in endecasillabi, ovviamente sciolti, con qua e là qualche ampliamento, ma sempre suggerito dal testo. Alla fine mi pare che non sia nemmeno male.

Copyright (C) Federico Cinti 2018

Immagine: Google immagini



Rosa rosae

Rosa, ti declinai nell’illusione
che saresti rimasta imperitura
più dell’eternità della flessione,
di quell’antica lingua così pura;

rosa, ti ricercai in ogni versione
col gusto estremo, con l’arcana cura
di chi voleva solo cose buone
in un’età di gioia e di paura;

rosa, scoperta allora, poi smarrita
non mi ricordo più nemmeno come,
rivista come immagine sbiadita

tra tante avversità, tra tante some
inutili di questa nostra vita,
rosa, di mille rose ombra di un nome.

Casalecchio di Reno (Bologna), 26 Febbraio 2018


Mi è capitato negli ultimi giorni, ovviamente per caso, di parlare con persone diverse del mio rapporto col latino. Sì, è vero, dico per caso, ma deve essere proprio che quest’argomento mi sta particolarmente a cuore, se ne parlo spesso. Il latino… ho sempre detto e ripetuto che per me è una lingua magica, perché fin da quando ero bambino m'emoziona. È irrazionale, certo, tant’è vero che non sono capace di spiegarne i motivi; eppure, la sento come lingua dell’anima. Ha un che di arcano, quasi ancestrale, che rasenta l’immortalità, immutabile ormai da millenni; proprio in quanto lingua morta, non può più morire, non è più soggetta alla caducità e alla corruzione. Non so, è come la musica che entra nel cuore, che sa di buono e dolce, che non si dimentica e anzi fa ricordare quello che non si ha più, quello che non si è più. Il latino mi riporta a quel passato senza tempo, un po’ come le favole, che è difficile collocare precisamente nel dove e nel quando.
A tutto ciò s’aggiunge che vivo, mio malgrado, in un’epoca in cui il latino non è più il rifugio sicuro dall’ansia del tempo che fugge, non è più la lingua dell’eternità. Già, il latino non è più la lingua sacra che mi sento risuonare dentro. No, ripeto, non è un moto nostalgico degli studi liceali o universitari: è qualche cosa che mi viene da prima, che avvertivo senza saperlo, che mi proiettava in quella dimensione senza limiti temporali o confini spaziali. Il latino è l’eco della mia voce. Non so se riesco a farmi capire, se anche a scuola passa questo concetto. Ma poi non importa: gli studenti, questa volta, non c’entrano sul serio.
Con pochi poeti riesco ad avvertire qualche cosa di simile, e mi riferisco a Pascoli in particolare, Virgilio e Orazio, Dante ovviamente e Petrarca, e poi Ariosto e Tasso. Oh, diciamolo pure: nessuno è perfetto. Ma forse sono semplicemente nato nel momento sbagliato. Ma il latino continua a esistere lo stesso…
Accidenti, mi rendo conto solo ora che volevo parlare anche della rosa, quella rosa con cui sono stato fotografato quest’estate. Chissà poi perché i grammatici hanno scelto proprio la rosa per insegnare la prima declinazione. Anche Marino Moretti le aveva dedicato bellissimi versi di malinconia, Rosa della grammatica latina. Insomma, dovorò proprio tornare su questo fiore e sulle sue trasposizioni poetiche.

Copyright foto e testi (C) Federico Cinti 2018

domenica 25 febbraio 2018

Nella seconda domenica di quaresima

Dove la via finisce, sull’altura
d’un monte, tra una nuvola, il Signore
assieme a Elia e Mosè si trasfigura
in tutta la sua gloria, il suo splendore,


mostrando la sua autentica natura
divina ai suoi tre Apostoli che in cuore
gioiscono, pur presi da paura
e da uno strano, insolito stupore,


quando dal cielo subito una voce
dice loro: «Ascoltatelo: è l’amato»,
indicando la strada della croce


come segno pasquale, preparato
per la salvezza, anche se pare atroce,
di questo mondo un po’ disorientato.


Casalecchio di Reno (Bologna), 25 febbraio 2018




Quale sia il monte su cui Gesù si è trasfigurato non è noto. Sì, pare che uno dei possibili sia il Monte Tabor, ma non è detto. E poi poco importa: il monte rappresenta un luogo appartato, silenzioso e vicino, più vicino, al cielo del luogo pianeggiante e sicuro dove di solito si vive. Come spesso avviene nella Scrittura, è un modo velato per suggerire di cercare il raccoglimento giusto dove Dio si lascia trovare. E in effetti Gesù si mostra a Pietro, Giacomo e Giovanni (gli stessi tre Apostoli che lo seguiranno nell'orto degli ulivi) nella sua divinità: fino a quel momento lo avevano conosciuto nella sua umanità. Se lo avessero visto a faccia a faccia anche in quell'occasione, morirebbero, tale e tanta è la sua grandezza, e allora il Signore appare in una nube, mentre parla con Mosè ed Elia, con chi lo ha preceduto e preparato nella costruzione del regno dei cieli.
E gli Apostoli, presi da un timore mai provato, non sanno che dire e propongono di costruire tre tende, in modo da poter continuare là la contemplazione della gloria del Messia. Ma non è questa la via che Gesù e i suoi discepoli devono percorrere. Gesù è l'amato, dice la voce del Padre dall'alto, e va seguito lungo la via della croce, che è l'unico modo di riscatto del'umanità allora come oggi disorientata. Era successo così anche nella profezia imperfetta di abramo che sacrifica Isacco.
Insomma, è una bella fatica accettare che il più grande di tutti gli uomini, che si è manifestato come Dio e parla con Elia e Mosè, debba essere consegnato per la passione atroce e la morte in croce. Ci hanno messo un po' a capirlo, gli Apostoli e i primi cristiani dico, che tutto si gioca nell'obbedienza alla legge dell'amore. Anche la trasfigurazione è momento di preparazione alla Pasqua, il mistero dei misteri. E il discorso vale per loro e, forse anche di più, per noi oggi.

Copyright (C) Federico Cinti 2018 

Immagine: Wikipedia 

venerdì 23 febbraio 2018

Sotto la neve

Cade la neve, il suo cadere è lento,
la poiana per via passa, ripassa,
la neve cade, cade senza vento,
sopra tutto s'accumula, s'ammassa,


cade, dintorno tutto va a rilento,
poi un’altra volta la poiana passa
lungo la via e la neve ogni momento
avvolge il mondo come una matassa.


Guardo San Luca, adesso tutto bianco,
alto nell'aria candida di neve,
il buco della Giacoma lì a fianco,


il cielo immoto, eppure lieve lieve
sul bosco scuro, appesantito e stanco,
e il Reno giù, sempre più grosso e greve.


Casalecchio di Reno (Bologna), 23 Febbraio 2018




Quando nevica, e per di più forte come oggi, non posso fare a meno di pensare all'ode del soratte di Orazio (carm. I 9). Non so: mi è proprio rimasta dentro. Nel 2012 mi ero prodigato a imitarla in tutti i modi: sono andato a vedere nel mio piccolo archivio personale e ho trovato questo sonetto, che ho ovviamente un po' risistemato per l'occasione. La situazione, però, è identica: io che me ne sto in casa a sentire la poiana (che a Bologna è lo spazzaneve... mi dispiaceva non ricordarlo), il silenzio intorno e il desiderio di caldo. Poi, proprio come Orazio, cito il monte di San Luca tutto bianco, cito il buco della Giacoma (da lì si capisce sempre se il tempo sia bello o brutto) e il fiume Reno, che un po' si è ingrossato, anche perché dicono sempre che manca l'acqua... ma quest'anno mancherà? Che ci provino... al di là di questo, non sto a ricordare tutte le altre trame allusive, da Dante a Pascoli: roba da filologi barbogi. La poesia vive di vita sua: è ovvio che non nasciamo dal nulla, io men che meno. Ecco, ora resta solo la speranza che l'inverno passi in fretta: già l'ho detto, ma lo ripeto più a me stesso che agli altri.

Copyright foto e testi (C) Federico Cinti 2018





giovedì 22 febbraio 2018

A rifletterci un poco

Eppure passa il tempo, anzi è passato
senza lasciare traccia, indifferente,
come se non ci fosse quasi stato,


eppure già s'approssima la notte
dalle ombre cupe, dalle luci spente
tra fitte ali di sogno ininterrotte,


in cui tutto s'annulla, in cui smarrita
si complica la via senza ritorno
col filo ininterrotto tra le dita
del labirinto esanime del giorno.


Casalecchio di Reno  ( Bologna), 22 Febbraio 2018


Dico che, alle volte, non ci si dovrebbe nemmeno pensare, anche se poi ovviamente è inevitabile. Sì, come si fa a evitare il pensiero del tempo che scorre, che fugge via inesorabile? Il tempo, poi, c'è perché ci siamo noi che lo pensiamo, come la figura nello specchio esiste solo perché la vediamo noi. E tra l'altro siamo noi. No, non è vero nemmeno questo: è la nostra immagine. Mi sembra di tornare a scuola, quando al muro erano appese le carte geografiche e si leggeva che l'una era l'Italia, l'altra l'Europa... ma non era vero. Tempo e spazio, allora, piani che s'intersecano. E mi sono smarrito in un labirinto con il solito filo tra le dita, un filo che tuttavia nessuno tiene all'altro capo. Chissà, forse è solo tempo di dormire, di non interrogarsi all'infinito sul buio, perché anche il buio non esiste, come dice Anselmo Paleari ad Adriano Meis. O meglio esiste solo perché accendiamo la luce... ma anche la luce c'è, se possiamo accenderla. Insomma, un bel guaio riflettere di notte...

Copyright (C) Federico Cinti 2018

Immagine: Alok Kumar, Triund is a base camp at the height of 9000ft - acclimatisation point for trekkers climbing the Inderahara point in the Mt.Dhauladhar, Himachal Pradesh, India, Wikipedia.

mercoledì 21 febbraio 2018

Quasimodo bolognese

E po' sóbbit l é sîra

Ognón da par sé só l côr ed sta tèra
al stà trapasè da un fîl d såul:
e pò sóbbit l é sîra.

S. Quasimodo, ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Nel momento in cui mi è venuta la voglia di sentire come avrebbe suonato in bolognese questa celeberrima poesia di Salvatore Quasimodo, mi si è posto di nuovo, come sempre del resto, il dubbio amletico: ma che cosa è che è «trafitto», «ognuno» oppure «il cuor della terra»? quando lo chiedo ai miei studenti, di solito si fronteggiano le due fazioni, quella che sostiene «ognuno» e quella che sostiene «il cuor della terra». Oh, secondo me tutt’e due: l’ambiguità è voluta, se non ricercata ad arte. Già, l’arte, e la poesia è forse la più sublime di tutte le arti assieme alla musica, con cui condivide la dimensione arcana del significante, si nutre di espressioni interpretabili in sensi diversi. Non ho mai capito appieno l’ansia di quei critici o esegeti che hanno bisogno di chiarire senza dubbi, di dare una e una sola interpretazione, e che, anche quando scrivono, vogliono risultare quasi geometrici nell’esposizione.
Anche in bolognese, a ogni modo, quest’epigramma ha una sua potenza evocativa di non piccolo momento. Non so, forse è data dal fascino arcano del ritmo dattilico, con quel primo doppio senario (con accenti di II, V, VIII e XI) seguito da un novenario (con accenti di II, Ve VIII sillaba) e chiuso da un settenario con accenti di III e VI sillaba. In fondo, è l’andamento epico per eccellenza, che rimanda a rapsodie ancestrali che ancora risuonano nelle nenie dei bimbi. Non si ripeterà mai abbastanza che a rimettere in circolo il novenario è stato Carducci, con la sua metrica barbara, e poi Pascoli, con la sua ossessione per i metri dattilici, lo ha reso un verso dell’anima. Sì, poi è vero, nei libretti d’opera a partire dal Seicento non mancano di certo esempi di arie di novenari, decasillabi e senari… mi viene in mente quel madrigale di Carlo Milanuzzi da Santa Natoglia, musicato da Monteverdi, Sì dolce è ’l tormento. Resto incantato ogni volta che lo sento eseguire, soprattutto da voci maschili…
Ma queste cose mica le posso dire ai miei studenti, al buon Carlo che, anche oggi, mi ha aiutato a realizzare questo video in cui leggo la mia traduzione e poi l’originale, al buon Andrea, che ci accompagnava per darci consigli sulle inquadrature e sui mezzi tecnologici. Perché, e bisogna dirlo una volta per ttutte, la poesia è una cosa viva e continua a vivere, finché qualcuno le dà vita, eseguendola a voce alta, prestando la propria voce e la propria presenza scenica. Ora, io non è che sia chissà chi, ma almeno ci provo, come ci ho provato da sempre.
Lo dico in chiusa, ma solo per comodità, non sarà il caso di approntare una seconda edizione del “Parnaso”? no, anzi, non seconda edizione, ma seconda puntata? Interpellerò chi di dovere. Io intanto mi metto all’opera, ché non si sa mai…

Copyright testi e video (C) Federico Cinti 2018

martedì 20 febbraio 2018

L'inerzia dell'inverno


Scende un silenzio torpido sul cuore
in questo giorno cupo, senza sole,
senza voglia di vivere, che muore
come nell’eco suono di parole

inascoltate, scende sul grigiore
di quel che non si ha più, che non si vuole,
simile a solitudine incolore
sul gelo della sera, sulla mole

di cose inesauribili da fare
adesso, oggi, domani o forse mai
nel tempo senza tregua che scompare,

scende il silenzio, scende, mentre vai,
dove a volte è impossibile scordare
l’inerzia dell’inverno che non sai.

Casalecchio di Reno (Bologna), 20 febbraio 2018

E che cos'è la bruma se non il lucore stanco dell'inverno inerte sulle cose? Il giorno più breve, più tetro, più cupo, come oggi. Mi mette mestizia questa stagione. L'ho già detto, forse, ma lo ripeto: non vedo l'ora che torni a ridere la primavera, in cui rifiorisce il cuore. E questa sera devo pure uscire... insomma, proprio non ci se la fa. Già, la bruma... nel ciclo dell'anno pare sia proprio ineludibile. Febbraio lo immagino come un vecchio adunco che s'incammina sulla fioca luce del tramonto senza mai voltarsi indietro. Meno male che è il mese più corto dell'anno: di ventotto ce n'è uno...

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Ice and icicles on a bush./ Gefrorenes Wasser auf einem Baum


lunedì 19 febbraio 2018

Restando al di qua

Cercherò anch'io una siepe dietro cui
farmi rapire dalla fantasia
di quello che sarò, di quel che fui,
di quel che sono già, sia quel che sia,


in questi giorni così tetri, bui,
colmi soltanto di malinconia
greve di sogni, di pensieri altrui,
mentre ogni cosa passa, fugge via,


e in fondo non so quando, non so come,
scorgerò scaglie lucide di mare
oltre il sipario verde delle chiome


degli alberi frondosi in cui scompare
l'ansia senza colore, senza nome
qui sulla soglia, qui sul limitare.


Casalecchio di Reno (Bologna), 19 febbraio 2018





Alludo a Leopardi, alludo a Montale, ma manca il mio Pascoli, oppure c'è, ma non si vede, nascosto anch'egli dietro la siepe: «Ch'io veda soltanto la siepe / dell'orto, / la mura ch'ha piene le crepe /di valeriane» ("Nebbia", 8-12). Non so, è tutt'oggi che ci penso, che penso che vorrei starmene al riparo, col freddo di questi giorni invernali, che vorrei starmene in casa a fantasticare «non so che felicità nuova» (Pascoli, "Gelsomino notturno", 24). Ecco, magari passo da una stanza all'altra, da oriente a occidente, seguendo il corso di un ipotetico sole che ci gira intorno, anche se il giorno è grigio e piovoso, anche se il sole poi non gira certo. Eppure un raggio di sole cambia la giornata, cambia l'umore, cambia la voglia di stare. La siepe protegge, la siepe ripara, divide e unisce allo stesso tempo. E poi quel mare, in fondo, dove naufragare, almeno per chi pensa che al di qua siamo in un perimetro troppo stretto, che non è il nostro. Un po' lo penso anch'io, anche se so che mi fa paura spingermi in territori inaccessi. E allora aspetto che ritorni il sole a rischiarare un po' queste elucubrazioni da fine inverno e le «notti acerbe e dure» (Della Casa, Rime LIV 14).

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Collina di Recanati che ispirò L'infinito di G. Leopardi, foto di C. Raso, Flickr



domenica 18 febbraio 2018

Nella I Domenica di Quaresima


E nella solitudine interiore,
dove tutto è ridotto all’essenziale,
nel deserto dell’anima, del cuore,
in cui si coglie il senso del reale,

del nostro essere vero, superiore,
al di là d’ogni bene, d’ogni male,
sull’esempio pietoso del Signore
che intraprende la via quaresimale,

vinte le quotidiane tentazioni
pregando e digiunando con impegno
anche noi diverremo testimoni

credibili di Dio, saremo segno
visibile nei gesti, nelle azioni,
che è questo il tempo in cui si compie il regno.

Casalecchio di Reno (Bologna), 18 febbraio 2018


Ma che cos’è il deserto, l’intima solitudine infinita fuori e dentro di noi? La Quaresima comincia proprio con lo Spirito Santo che sospinge Gesù a ritirarsi per quaranta giorni e quaranta notti al di fuori del consorzio umano, in mezzo alle bestie selvatiche. Ecco, forse il deserto è la ricerca di una dimensione essenziale, il desiderio di porsi senza distrazioni davanti a Dio. il racconto di Marco dice molto sinteticamente che il Signore è tentato  da Satana, forse perché deve mettere alla prova la propria umanità. Insomma, tanto basta per capire che quella è la strada da seguire, la via del pentimento e della penitenza, che altro non è se non riconoscersi nella propria finitudine bisognosi di qualcuno che ha già compiuto quel percorso e ci può tendere la mano, per di più se egli è Gesù. Ma questo non basta, perché poi deve seguire l’annuncio della buona novella, che il regno è già in terra. Sembra assurdo, ma nel deserto non ci si perde, ma ci si ritrova, perché l’uomo non ha bisogno solo di quel che è tangibile, di quel che è visibile, di quel che è percepibile. L’uomo è fatto per l’assoluto. Sì, non è facile resistere, ma la Quaresima – come del resto il deserto – non è un momento di tristezza, come ha detto papa Francesco all’Angelus di oggi, ma di gioioso impegno ad abbandonare l’uomo vecchio per diventare veri uomini e vere donne.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: W. Blake, The Third Temptation, 1803-05

sabato 17 febbraio 2018

Sopracciglio


Metafisico l’irto sopracciglio
si stende solitario lungo l’arco
orbitale a indagare l’infinito

oltre di sé, a cercare qualche appiglio
a non si sa che cosa, a un breve varco
al di là del già visto, già sentito,

nell’esserci dell’essere sul ponte
sprofondatosi dentro l’orizzonte.

Casalecchio di Reno (Bologna), 11 luglio 2017


Sono passati ormai più di vent'anni da quando lessi per la prima volta il "Pasticciaccio" di Gadda, ma l'incipit non me lo riesco a togliere dalla mente. Già, perché la descrizione di don Ciccio Ingravallo, comandato alla mobile, ha un che di trascendente. In particolare, mi piace quando dice «ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po' tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d'Italia, aveva un'Aria un po' assonnata, un'andatura greve e diniccolata, un fare un po' tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione» (C.E. Gadda, "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana").
Ecco, i «due bernoccoli metafisici» mi fanno venire in mente il mio lungo sopracciglio, quello che spunta così irriverente su quasi tutta l'arcata orbitale. Oh, non so come spiegarlo, ma ne vado anche fiero, al punto che, oggi pomeriggio, un'amica di famiglia mi ha fatto una foto per immortalare il tutto. Non vuole che la citi, e non la citerò, ma mi hanno detto che il tutto è venuto pure di una certa qualità... del resto, si sa, il soggetto è ottimo.

Copyright foto e testi (C) Federico Cinti 2018

venerdì 16 febbraio 2018

Spass al mèl ed sta vétta ai ò catè. Eugenio Montale in bolognese

Spass al mèl ed sta vétta ai ò catè:   
l êra l ariôl struzè ch’puvràtt l arbói,
l êra l inscartuzères sacc däl fói
arsótti, l êra al spant cavâl crulè.    

Mâi savó ed bän, fòra dal mirâcuel
ch’al scòza la divéṅna Indiferänza:
L’êra la stâtuva int la sunulänza
Dal meżdé, e la nóvvla, e al fèlc là só livè.




E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.









A dirla tutta, poi, la domanda che ci si pone è sempre la stessa: ma come deve essere questa benedetta traduzione, bella e infedele o brutta e fedele? È dai tempi del liceo che sento ripetere la filastrocca del traduttore traditore, perché tanto quello che voleva significare l’originale è difficile da trovare nella traduzione. Eppure è un esercizio che si deve fare; anzi, è l’unico esercizio utile per entrare nel testo veramente, come dice Leopardi. Sarebbe bello conoscere tutte le lingue del mondo per poter godere non solo del significato, ma anche del significante; ma purtroppo, come è ovvio, non è possibile.
Riguardo a queste traduzioni in dialetto bolognese, poi, non è mancato nemmeno chi mi abbia mosso critiche relativamente alla loro utilità. Oh, non è che tutto debba rispondere a un fine preciso: anche il piacere di tradurre e sentire nella lingua della propria città i versi di poesie famosissime ha per me un suo senso. E quindi lo faccio e mi diverto.
Su questo testo in particolare di Eugenio Montale, tuttavia, ammetto una certa difficoltà e diffidenza a partire già dall’amico Federico Galloni, che come sempre mi aiuta nella revisione lessicografica oltre che ortografica. In un primo tempo avevo seguito il suo consiglio di rendere il verso incipitario così: «Al mèl d sta vétta, spas, a l ò catè». Sì, perché la mia resa era difficile in bolognese, perché il dialetto mal sopporta la costruzione oggetto-soggetto-verbo. Mi ero anche convinto, senonché ho pensato che si potesse “tirare” un po’ il dialetto, forte ovviamente dell’originale. Oh, forse verrò redarguito a dovere, ma intanto ci ho provato. Mi è invece piaciuta molto la sua (sempre di Federico ovviamente) proposta di rendere con una metafora un po’ ardita il v. 6, quando Montale dice «che schiude». È il verbo che si usa anche per le uova e, allora, si è pensato a «scuzèr ». insomma, ripeto e mi ripeto, ci si prova.
Altri mi hanno detto, ed è il caso di una compagna di scuola, Valentina, che – diversamente dai precedenti testi resi in vernacolo – questa non le dava lo stesso gusto, lo stesso sapore. Mah… potrebbe anche essere, perché in fondo tutto è sempre così provvisorio, così precario. Io registro tutto, sento tutti e poi cerco anche di condividere, perché prima non sarebbe stato possibile alcuna discussione, prima intendo di aver fatto questa proposta.

Copyright foto e video (C) Federico Cinti 2018

Immagine: Kaj Hagman. - Undated clipping from Vasabladet. The caption says the picture was taken in 1965, Wikipedia



giovedì 15 febbraio 2018

Mercoledì delle Ceneri


Nel silenzio indicibile il fruscio
d’un sibilo impalpabile di vento
dove è ogni cosa informe, il tremolio
nel’agitarsi lieve del momento

trascorso appena prima dell’avvio
dell’essere, dell’esserci, l’avvento
dell’uomo fatto a immagine di Dio
e a somiglianza sua, quale strumento

d’amore inesauribile, infinito,
d’un uomo troppo spesso sfigurato
da se stesso, nel cuore inorgoglito

dalla sua presunzione, dal peccato,
opaco dentro l’anima, che il rito
di queste sante Ceneri ha lavato.

Casalecchio di Reno (Bologna), 15 febbraio 2018


Ecco, sentirsi come davanti a quel che saremo, anzi no: a quel che siamo. Già, perché il versetto "memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris" richiama la coscienza della nostra creazione dalla polvere. Ieri, durante il rito dell'imposizione delle sante Ceneri sulla testa ho avvertito prepotentemente questo, un senso di finitudine e di nulllità delle cose che mi circondano. Sono rimasto turbato, come se io lo scoprissi per la prima volta, e forse era anche vero; era quasi camminare sull'abisso. Eppure, non mi sentivo solo; eppure, sapevo che quel nulla percepito aveva il suo senso nell'universo, in quell'andare del tutto verso un'unica direzione. E quel senso mi è stato dato proprio dalla croce, segno di morte e di risurrezione, congiunzione tra la terra e il cielo da una parte all'altra della realtà circostante. Polvere, sì, sono polvere, ma una polvere plasmata con un preciso disegno da compiere. Dopo essermi liberato dalle inutili zavorre che mi tengono attaccato al suolo, dopo che mi è stata indicata la via è forse questo il momento di intraprendere il viaggio.

Copyrigt (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Mercoledì delle Ceneri, acquerello di Julian Fałat, 1881